L'opera
di Giuliano Leonardi |
testo di Simona Campus |
Giuliano Leonardi nasce a Sorso, un appartato moccichino di mondo nella provincia di Sassari, il ventitré aprile del 1899 da padre toscano , Leonildo, e Caterina Nieddu. Il fratello maggiore, Leonida, a sedici anni intraprende volontario la carriera militare. Si presagisce che Giuliano sia invece destinato a alla cura della terra nei possedimenti di famiglia, quando ancora bambino scappa di casa, arriva fino a Sassari e compra i colori per dipingere. Sempre più spesso lo si vede appollaiato in cima agli alberi scrutare fino all’orizzonte zolle, arbusti, frutti. Il paesaggio compare già in un disegno a pastello nel 1918: l’immagine di San Francesco orante si profila su fusti nodosi e fronde lussureggianti. E già non è un paesaggio nell’immediatezza di un naturalismo hic et nunc ma sintesi concettuale di realtà e ideale. Nulla conosciamo della cultura figurativa del giovane Leonardi, nulla delle sue letture. Romanticamente accattivante potrebbe delinearsi il ritratto dell’artista naif, ingenuo e primitivo. Ma i contorni netti, il graduarsi della luce, la delicata scelta coloristica, pur nell’inevitabile incertezza compositiva, raccontano piuttosto la dimensione di una vocazione ancora incolta ma determinata nell’acquisizione degli strumenti espressivi della pittura. Totalmente scevro da tentazioni sperimentali, sa suggestioni avanguardistiche, il sentimento dell’arte non si accompagna alla ricerca della modernità, plateale ma si nutre di solitaria riflessione sulla evocazione mistica della spiritualità. E’ in nuce quella concezione del paesaggio, che Leonardi elaborerà negli anni della sua maturità e che di certo è il lascito maggiore della sua arte. Intenti quasi fotografici sovrintendono invece alle prime prove ritrattistiche: il Ritratto di Rosa Fais e il Ritratto della Signora Fais, nel 1920, entrambi a carboncino, sono etimologicamente documenti di fisionomia capaci di richiamare un’atmosfera familiare , un’immobilità dimessa, e resi preziosi dalla maestria tecnica. L’attitudine all’arte di Leonardi si palesa sempre più perentoria sino alla scelta di un’educazione propriamente scolastica. Sono gli anni in cui l’unità nazionale non può più continuare a ad essere per la Sardegna soltanto un fatto burocratico, la mera sostituzione del sigillo del re d’Italia agli innumerevoli sigilli che da tempi immemorabili avallano angherie e ruberie fiscali. L’Isola si prefigge di compiere il suo ingresso, pur difficile e connotato da specificità che è doveroso salvaguardare, nella compagine nazionale. E se il ruolo della cultura è sempre più di rado, in quel frangente, un ruolo da deuteragonista, avere l’ambizione di essere artista per un giovane nato in sardegna significa prioritariamente esaudire l’urgenza del confronto. Ragion per cui la scuola da frequentare non può che essere l’Accademia di Belle Arti a Roma, malgrado questo comporti non indifferenti impegni economici per la famiglia. Quanto, peraltro, Giuliano sappia essere tenace nel perorare le proprie scelte, lo si è arguito quando, chiamato alle armi, rifiuta caparbiamente di combattere contro nemici che asserisce di non avere e attua un vero e proprio sciopero della fame: desisterà soltanto dopo il ricovero in ospedale. La capitale, che conta un terzo degli abitanti di oggi, dove le macchine che circolano per le strade sono ancora una rarità e si mischiano alle vecchie carrozze a cavalli e dove di lì a poco l’architettura umbertiana si unirà all’architettura imperiale di epoca fascista, diviene per un attimo per Leonardi l’unica città possibile, eterna dentro il tempo. “ A Roma, il passato e il momento attuale sono di continuo fusi nella storia, che è ora commento ad un fascino inalterato, ora teatro trasparente di passioni labirintiche e di angosce metafisiche, ora emblema di molte anime raccolte in un luogo privilegiato, ora simbiosi di pietre, acque e nuvole, ora coreografie di architetture dilatate nella pittura, nella scultura, nella musica, nella poesia, come pontificale a Dio”. Per l’esame di ammissione all’accademia Leonardi affronta una prova di pittura ad olio stupefacente per un autodidatta. Realizza un intiero album di soggetti di natura morta: una pannocchia sfogliata e un poco guasta, una fetta d’anguria costellata di semi, un grappolo d’uva matura, una mela bacata, pere e cipolle di diversa varietà, una pesca e il suo nocciolo, il ramo di un mandorlo e quello di un pesco, il profilo di un gallo, le sembianze di numerose creature alate sono indagati con estrema minuzia e con un’adesione al vero ancor più sorprendente se si consideri il fatto che vengono citati a memoria, Ogni particolare è accuratamente studiato da una pittura lenta nella descrizione, esperita nella capacità di piegare l’olio alle prerogative analitiche della miniatura. Senza timore di esser anacronistico Leonardi costruisce le forme con dovizia antica e,come nella più sincera tradizione, l’amore per la natura celebra la potenza di Dio in ogni dettaglio, in ogni ombra, in ogni riflesso. L’esame è superato a pieni voti e Leonardi è finalmente allievo di Pietro Canonica. Inizia così un lungo periodo di apprendistato, soprattutto tecnico. Comprende che per la scultura, non diversamente che per la pittura, come sosteneva Leonardo Bistolfi, è una “quistione di sentimento”: necessita abbandonare ogni convenzionalità d’ispirazione e plasmare la materia in “un’interpretazione ingenua e onesta tendente a riprodurre le commozioni soggettive” procurate dalla visione della natura. Del 1926 sono una serie di studi di scultura in gesso a tutto tondo – purtroppo attualmente dispersi – che rivelano l’ascendente di quella solida commistione di verismo e simbolismo per la quale Canonica è divenuto il retore illustre dell’alta società capitolina della belle époque: Laocoonte avvinto tra le spire di terribili serpenti insieme ai figli, due drammatiche versioni della Pietà di Cristo che paiono preludere alla realizzazione di monumenti funebri, muovono dall’intendimento di risolvere la dialettica antica del compenetrarsi delle masse plastiche. I gruppi scultorei si articolano nella realizzazione dei singoli corpi tra loro e rispetto all’unità dell’insieme, la calibrata torsione delle figure è clausola metrica, ritmo della fluidità della composizione. Eco d’antico, nella fattispecie quattrocentesca e donatelliana è anche nell’immagine estatica di San Francesco, come Maddalena, colma di misticismo e aliena da ogni intento agiografico, mentre l’euforia quasi pagana dei puti della cantora già ha sovrinteso alla creazione dei due bassorilievi con La Semina e Il Raccolto. Il Ritratto di Vanina, ancora del 1926, aspira al carisma dei celeberrimi ritratti di Canonica, intrisi del mistero dell’animo femminile. Alla maniera del maestro, Leonardi non trascende l’adesione alla verità ma la mitiga con sensibilità impregnata di classicismo: il viso è risolto nel rigore della struttura formale, nell’incisività dei piani e delle linee, la posa conferisce al soggetto un’eleganza altera, riservata, elusiva. L’effige austera del Ritratto di un amico, Antonio Carboni, del 1930, affida la levatura morale dell’uomo ai modelli figurativi della Roma dei Cesari – variamente e assiduamente elaborati nelle teorizzazioni storico artistiche del periodo- come nel 1943 e nel 1945 accadrà per gli egualmente severi Ritratti in gesso patinato rispettivamente del fratello e del padre. Ma ancora guarda a Canonica il Ritratto di Giannetto Masala – poeta morto nel 1917 a soli trentatré anni – conservato nella biblioteca del Centro culturale “Salvatore Farina” di Sorso, ascrivibile anch’esso al 1930, per la cifra verista che con naturalezza rivela le attitudini culturali del personaggio. Conseguito il Diploma in Scultura nel 1929, Leonardi rifiuta l’ipotesi di dedicarsi all’insegnamento in accademia. Prende studio in Via Flaminia. In quegli anni, si è detto, Roma è una piccola città. Alla sera, terminato il lavoro, gli artisti si riversano in centro prendendo un tramo a piedi, discutendo. Contiguo al Museo di Villa Giulia, lo studio di Leonardi dista assai poco da luoghi allora nevralgici per gli incontri fra gli uomini di cultura. Soltanto due anni prima, nel 1927, è morto Alfred Wilhelm Strohl Fern , poeta, pittore, scultore, musicista e prodigo mecenate che nel 1879 ha fatto costruire una villa con una serie di studi ove gli artisti possano lavorare in solitudine e al tempo stesso, ritrovarsi e dibattere e polemizzare. Poco più in là, su via del Corso, la “terza saletta” del Caffè Aragno è il sancta sanctorum della letteratura, dell’arte e del giornalismo. Il locale, sempre saturo del fumo degli avventori, ha le pareti color tabacco, con grandi specchiere e due finestre che si aprono su via delle Convertite; alle pareti corre un lungo divano foderato di tela, con una trentina di tavoli in ferro col ripiano di marmo. Vi si accampano i protagonisti di un’epoca. Il brusio si unisce all’insulto politico, la discussione sulle novità di Parigi o di Berlino si acavalla all’ultima scoperta letteraria. Si dibattono le idee del Futurismo e quelle di “Valori Plastici”, la distruzione si alterna alla costruzione, l’Espressionismo si solidifica nel classicismo. Ma Leonardi è alieno dal prendere parte ad ogni sorta di gruppo o cenacolo.Gli è totalmente estraneo il desiderio di avere notorietà o successo. Esce raramente, vive e lavora in quel suo bugigattolo colmo solo di opere e opere caparbiamente celate e di un altissimo sentimento etico e religioso. Unico luogo che frequenta con assiduità è la parrocchia di Sant’Eugenio, alla quale farà dono nel corso degli anni di numerosi dipinti. Conduce un’esistenza spartana, in grandissime ristrettezze finanziarie, e quando chiede ai familiari un sostegno economico lo fa soltanto in funzione del poter continuare a dipingere e scolpire, per comprare gesso, tele e colori. Ha un obbiettivo da perseguire, il mestiere dell’arte, che spesso è assai arduo, impresa titanica per lui così fragile e così insicuro, eppure lo insegue con tenacia, passione, solitudine. E’ pieno di dubbi e di esitazioni: ama per trent’anni una sola donna, senza trovare mai il coraggio di sposarla, di fare di lei la sua famiglia. E’ però anche un uomo tranquillo, senza problemi filosofici o metafisici. Accoglie affabilmente gli amici che gli fanno visita ma nulla sacrifica del proprio riserbo. E sempre vigila sulla scelta – e sempre salvaguardandola – di opporre la coerenza della propria ricerca alla instabilità degli eventi. Purtuttavia, straordinariamente e potentemente, la maturità artistica di Leopardi vive di una assoluta consentaneità con i tempi. E con tanta parte degli orientamenti estetici negli anni tra le due guerre condivide utopie, tratti distintivi e persino il fervore religioso. La Grande Guerra ha consumato in modo atroce l’ultimo slancio vitalistico della vecchia Europa e sancito la definitiva disfatta dell’illuministica perfettibilità umana. “Il miraggio ottimistico e rivoluzionario della prima età della macchina, illustrato con ansia febbrile dall’avanguardia cubo-futurista, si è rivelato orrendo congegno, capace di stragi inimmaginabili. E giunge allora il tempo del misoneismo, del disprezzo aristocratico per il moderno, del ritorno avido all’umanesimo classico, all’ordine dopo il caos”. Gli alfabeti coniati sulla distruzione della regola rinascimentale cominciano ad essere declinati secondo principi di ricomposizione. Una volontà di chiarezza si sostituisce alla “volontà di potenza”. Roma ha risentito soltanto da lontano gli eventi bellici ma, quando il Futurismo già entra nella sua fase Seconda, la reazione si determina comunque nel senso di una presa di coscienza della irrimediabilmente fratta endiadi arte poesia – vita pragmatica. I “Valori Plastici” di Mario Broglio come la “Ronda” di Vincenzo Cardarelli mirano a “dissolvere un clima di incertezze e di attese con la forza di un progetto che nelle categorie formali di proprietà. Di medierà, di equilibrio, di ordine, di misura” trova “l’aspirazione ad un’arte , auna moralità, a un’attenzione all’arte sentita come tradizione, come continuità etnica e storica italiana senza sbandamenti avangurdistici, sperimentali, esterofili”. Negli anni venti e trenta la pittura romana prosegue il suo cammino, appena turbato dalle fugaci, polemicissime apparizioni di Scipione, dalla splendida e qualitativamente altissima avventura della rivolta di Via Cavour. Il realismo magico di Franz Roh rinasce con Massimo Bontempelli e per il tramite di Corrado Cagli dal sogno più fresco di una nuova età primordiale. Il Novecento romano, più eccitato e fantastico, più morbido e sensuoso rispetto alla norma istituzionale sarfattiana, si accende di nuovi stupori. Eccolo allora, allo scadere del terzo decennio – e ci preghiamo con emozione di restituirlo alla storia dell’arte – il singolare realismo magico di primogenio e spirituale di Giuliano Leonardi: nell’Estasi di Santa Caterina, custodita nella sacrestia della parrocchia di San Pantaleo a Sorso, del 1927-30, per l’anelito di trascendenza enfatizzato dalla figura allungata e quasi incorporea. E nei due oli, dipinti nel 1930, a raccontar la favola didascalica e forse retorica – di un’eroina alla quale un cavallo rimasto senza cavaliere recapita il funesto presagio di un manto insanguina to ed è poi costretta, ma senza esitazione alcuna, a portare sulle spalle il corpo possente del suo uomo ferito, dinnanzi al figlioletto atterrito, soltanto un attimo prima intento ai giochi di fanciullo - riscattata però da finezze stilizzanti, memori di certe linee preraffaelite e, varcato ogni retaggio ottocentista, profondamente radicate nel XX secolo. Ed ancora, nel mito proiettato sulle caste nudità di Venere e Amore intenti alla musica, redatto in una composizione senza narrazione e resa immobile dalla nitidezza di un disegno che eterna le forme e sostiene l’ipotesi di un confronto, suggerito anche dalle altre opere, con la pittura, anch’essa profondamente religiosa, di Gisberto Ceracchini – emblematicamente isolato abitante di Villa Strohl Fern. Eccolo allora al dechirichiano ritorno al mestiere nei quadri da cavalletto dipinti ad affresco come fossero pareti e con procedimento mai svelato: un angelo raffinatissimo, Dafne, che si muta in alloro, La pudicizia, Santa Cecilia. Una più composita e quasi anarchica varietà d’atteggiamenti caratterizza rispetto alla pittura , la produzione scultoreaitaliana tra le due guerre, incerta tra eredità simboliste, restituzione della struttura volumetrica, assunzione di modi greci e romani con minore o maggiore testualità e una mai sopita vocazione verista. Rilevante è l’incidenza della committenza pubblica, esplicatesi quasi totalmente nei monumenti ai caduti e nella decorazione degli edifici. Ma se la rifondazione plastica e certo neopurismo di sottile grana intellettualistica sottendono, quali elementi unificanti, a tanta eterogeneità d’espressione, in questo senso si configura il superamento dell’accademia e l’approdo ad un linguaggio scultoreo caratterizzante anche per Leonardi. Nel 1933, alla Galleria Comunale di Cagliari, espone la Madonna del Grano, realizzata nel 1928, di rara gentilezza formale: le figure della Vergine e del Bambino, contrappuntate dell’evidenza tangibile delle spighe, quasi trapelano, piuttosto che emergere, dal fondo della superficie, grazie alla perizia del basso e bassissimo rilievo, e il bronzo riverbera di sottili movimenti coloristici ad accentuare la sintesi lineare condotta sino al massimo grado di stilizazione. Quel poco, pochissimo dei propri lavori che Leonardi sottopone al giudizio altrui gli basta a procurargli numerosi estimatori e importanti commissioni. Nel 1931 realizza La Cavallerizza, monumentale scultura in bronzo per la facciata della Caserma Pastrengo, oggi conservata nella Caserma Salvo D’Acquisto, Reggimento Carabinieri a cavallo, a Tor di Quinto: i profili lineari dei cinque cavalli ricusano ogni lusinga descrittiva e l’accentuato grafismo adutto mira a conseguire un risultato di ricercata eleganza con determinazione antinaturalistica. Verosimilmente ascrivibile alla seconda metà del decennio è la Cappella Giorgi Monfort nel cimitero monumentale al Verano, nella quale Leonardi è anche architetto. La struttura a parallelepipedo rivesti con blocchi di marmo liscio e bianco, rigorosa ed essenziale, si concede all’ornamento soltanto nel cornicione superiore suddiviso in tre pannelli, scolpiti anch’essi nel marmo e raffiguranti l’Adorazione del Bambino, la Deposizione e la Resurrezione di Cristo. Forbiti ed avversi ad ogni orpello esornativo, unicamente ripropongono, mescolato ai personaggi della storia sacra, il motivo delle spighe di grano, simbolo di rinascita. E nella Crocifissione all’interno della cappella, accanto alle due Sante ai lati della croce, ardono lampade metafora di luce divina. La politica non ingerisce nella vita di Leonardi, concentrata soltanto sull’ideale imperituro di un’arte assoluta e metastorica. Nel 1939 il gruppo intitolato La difesa della razza – ma che l’artista ricorderà come La famiglia – introduce alla “Mostra autarchica del minerale italiano” allestita al circo massimo. Eppure nel 1947 Leonardi forgia i Busti del contrammiraglio Maschera e dell’ammiraglio Campioni, protagonisti delle vicende dell’isola di Lero, per l’Accademia Navale di Livorno. Sempre nel 1947 è inaugurato il Monumento a Salvo D’Acquisto a Torre di Palidoro, la borgata limitrofa a Torrimpietra, sulla Via Aurelia, dove nel settembre del 1943 il vicebrigadiere dei carabinieri è stato trucidato da un plotone d’esecuzione nazista. Realizzato per incarico del comando della legione territoriale carabinieri di Roma, il monumento bronzeo, poggiante su una grave base marmorea, pur correndo sul filo del sentimentalismo aneddotico, della declamazione atta ad ammonire, serba il proprio interesse nell’arcaismo insieme sacro e domestico che ritrae l’eroe. Il ventuno novembre 1948, nel cortile della legione allievi, si celebra la cerimonia di consacrazione dell’Arma dei Carabinieri alla Madonna “Virgo Fidelis”. L’immagine che campeggia sull’altare, destinata ad essere l’archetipo di tutte le successive effigi della patrona, è la scultura di Leonardi in gesso patinato che i contemporanei accolgono come opera di squisito senso artistico:” Pare quasi che quella immagine, scolpita nel duro legno [sic!], si ravvivi di una luce celeste, che quelle sembianze vogliano staccarsi ed acquistare forme più vive e palpitanti per proferire con voce calda e suadente quelle stesse parole che sono scolpite in quel libro sul quale è affisso lo sguardo della Vergine:< Sii fedele sino alla morte >”. La Virgo Fidelis, oggi custodita nel Museo Storico dell’Arma, evocante bontà e fermezza al contempo, si costruisce intorno alla linea stupenda delle mani, atteggiate a delicato moto di protezione: ogni possibile rischio di accademismo è sventato dalla partecipazione sincera ed empatica dello scultore alla vita dell’opera. Una intensa eticità sostenuta da equilibrio compositivo e accentuati linearismi trascendenti impronta anche la Deposizione di Cristo per “l’altare delle anime” di San Pantaleo, marcata dalla differenza di luminosità tra il ruvido del fondo e la levigatezza delle figure; i tre bassorilievi in gesso patinato San Francesco e fratello Sole, San Francesco e fratello Fuoco, San Francesco e sorella Acqua della chiesa dei Cappuccini a Sorso, definiti da segni scanalati e profondi; La Vergine dell’ulivo e la Vergine dei marinai, fuse in bronzo nel 1947-48 per il monumento funebre del padre e del fratello nel cimitero di Sorso, e rischiarate dal contrasto con i mattoncini di cotto della struttura. Gli anni cinquanta e sessanta registrano ancora importanti prova scultoree nel monumentale tuttotondo della Madonna del Buon Cammino, del 1950, che campeggia sulla facciata di San Pantaleo, nella Santa Barbara protettrice dei Vigili del Fuoco realizzata intorno al 1955 per la Scuola antincendi di Roma, e nei ben sedici rilievi con S. Giovanni, commissionatigli tra il 1963 e il 1966 dai Cavalieri di Malta, due dei quali, si trovano nella Casa dell’Ordine sull’Aventino. Ma Leonardi sempre più assiduamente ha intrapreso ad impegnare tutta la propria energia creativa nella precisazione di una pittura di paesaggi che nulla impedisce indicare come insigne espressione d’arte moderna: soltanto il silenzio nel quale è stata concepita può spiegare l’essenza preziosa ed insieme chiarire la regione per la quale è stata fin qui trascurata dalla critica. Sono centinaia e centinaia di dipinti – su tela, compensato, tavola, metallo – che coprono l’arco cronologico di oltre quarant’anni, fino alla morte dell’artista, avvenuta il due marzo del 1989. Sono scorci di una natura sempre infinitamente uguale e infinitamente diversa, lievi modulazioni della vita cosmica, ricordo di un’emozione panica distillata dalla meditazione. Sono l’annullamento di ogni tensione drammatica: l’immagine valica la dimensione del tempo per farsi figura in senso auerbachiano di eternità. L’architettura nascosta della composizione si costruisce nella chiusa spazialità di forme perpetue, di geometrie essenziali – d’intuizione cezanniana – che assumono parvenza di alberi alteri contro le intemperie o di rocce che custodiscono la memoria di lentissime metamorfosi o infiniti istanti. Le cromie modulate talvolta di sole talvolta di vento aderiscono perfettamente alla tela, esaltandone la trama, includendola nelle mille vibrazioni di luce. I paesaggi di Leonardi vivono di un sostrato di coscienza antimpressionista che, come a sostanza aristotelica, attinge a inesorabili malinconie morandiane nella ricerca dolorosa di un’armonia generale insidiata dalla disarmonia del particolare. Scrivono le pagine di un diario nobile e misurato, severo e spontaneo, diuturna fatica, fede imperitura, laica ossessione di un uomo probo, di un’artista schiavo dei propri sogni, perché “casti e sognanti sono i forti”. |