Una
mostra al Castello di San Michele, racconta un artista sardo degli
anni Trenta e Quaranta, uno di quelli dimenticati. Giuliano
Leonardi, famoso come scultore (tra le sue opere più note
ricordiamo quelle della Virgo Fidelis e del monumento a Salvo
D’Acquisto), quasi inedito come pittore, mai ha venduto un opera;
poco ha gradito celebrazioni di circostanza; sempre ha preferito
occuparsi del proprio fare artistico, della propria arte, dei propri
scalpelli e pennelli. Una bella mostra, presentata da Vittorio
Sgarbi con testi in catalogo di Giorgio Pellegrini e Simona Campus,
svela oggi capacità e poetica di quel nativo di Sorso [SS] la cui
prima formazione, autodidatta, si svolse poi in ambito romano.
Voluta
dall’Assessorato alla Cultura, la mostra, parla di paesaggi immoti
e metafisici ripetuti ad oltranza. Profili di orizzonti, illuminati
di tonalismo veneto, ed abitati da alberi e da incombenti ed
ingombranti rocce forgiate dal vento e dal tempo. Sullo sfondo cieli
piatti e polverosi. Leonardi, accumulatore di tele, predilige il
soggetto unico, che ripropone all’infinito. Come Cezànne replica
infinite volte il monte Sainte Victoire; come un maestro di icone
replica madonne e santi senza mutare le regole di una tradizione,
così l’artista di Sorso ripropone i suoi paesaggi col medesimo
alfabeto. Le sue tele, infatti, non sono ascrivibili ad un periodo,
ad un momento della sua produzione, ma ne rappresentano l’unica
possibile forma espressiva a partire dagli anni ‘40. Una scelta la
cui origine non è determinata, come in altri casi, dal mercato:
Leonardi non è insomma un De Chirico degli anni ‘60 che cita se
stesso per garantire sempiterna gloria, ma un artista che intrapresa
una via la percorre con spiritualità da pellegrino. Una «preghiera
segreta» da rinnovare ogni volta. Ogni volta con pennelli, alberi e
rocce biomorfe: protagonisti unici di un paesaggio fatto di
equilibri sottointesi, insinuati dinamismi e giottesca semplicità.
Andrea
Delle Case
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